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studio del dottore e che la chiamavano liposuzione e non era affatto pericolosa.
Provai orrore. Credevo che il mondo la trovasse già meravigliosa! Nessuno aveva il diritto di rimodellare
la mamma! Questa gente è pazza, Marty è pazzo, se lo consente. Non può mangiare un piatto normale, è
continuamente sotto sedativi e ora le stanno prosciugando il corpo. Questa è follia.
L'infermiera se ne andò, e rimanemmo sole, io e lei. Ero terrorizzata che qualcosa sarebbe accaduto, che
mi avrebbe detto qualcosa, come era successo prima. Non volevo rima-nere in quella stanza con lei.
Non volevo neppure starle vicino.
Ma lei era troppo fatta, per poter dire qualcosa. L'inie-zione stava facendo il suo effetto.
Improvvisamente sembrò terribilmente triste, se ne stava seduta lì, nella sua camicia da notte, come se
fosse persa. Continuai a guardarla, e fui colta da uno strano pensiero. Conoscevo ogni centimetro di quel
corpo. Quando ero piccola avevo dormito con lei migliaia di volte. Lasciava persino Leonardo Gallo per
infilarsi nel mio letto, al buio, e ci facevamo le coccole. So come ci si sente vicino a ogni parte del suo
corpo, cosa si prova ad accoccolarsi fra le sue braccia. So come sono i suoi capelli e che odore ha lei, e
so dove glielo hanno tolto, il grasso. Lo saprei anche se mi bendassero, me ne accorgerei al solo
toccarla.
«Mamma, forse Trish e Jill resterebbero, se tu glielo chiedessi», dissi improvvisamente. «Tornerebbero».
«Non credo, Belinda», disse con dolcezza, «non puoi comprare la gente per sempre. Puoi comprarla
solo per un po' di tempo».
«Mamma, ti voglio bene», dissi.
«E anche tu devi andare per la tua strada, non è vero, tesoro? Ormai, qui già non ci stai più».
Guardava fisso davanti a sé e le sue parole venivano fuori così lentamente che mi faceva paura.
«Mamma, dimmi», le dissi. «È questo che vuoi?».
Si voltò verso i cuscini, ma brancolava. Le sue mani passavano sulle lenzuola, come se cercasse
qualcosa d'invisi-bile.
La spinsi indietro delicatamente e l'aiutai ad entrare nel letto, scostandole e rimboccandole le lenzuola.
«Dammi gli occhiali», le dissi.
Non si mosse. Fissava il soffitto. Presi gli occhiali e li misi sul comodino, vicino al suo telefono privato.
«Dov'è Marty?», chiese improvvisamente. Cercò di mettersi seduta. Mi fissava, per cercare di vedermi,
ma senza gli occhiali non ci riusciva.
«È andato all'aeroporto. Ma tornerà subito».
«Non andartene finché non torna. Resterai qui con me?».
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«Certo. Ora stenditi».
Sprofondò nel letto, come se qualcuno l'avesse sgonfia-ta. Allungò una mano verso di me perché gliela
tenessi.
Chiuse gli occhi. Pensavo che si fosse addormentata, ma poi sporse di nuovo la mano, cercando gli
occhiali e poi il telefono.
«Eccoli, mamma», dissi.
Fuori c'era ancora la luce del giorno. Stetti seduta vicino a lei finché non si fu profondamente
addormentata. Era ghiacciata. Mi guardai intorno: la lunga bianca camera da letto col tappeto bianco e il
raso e gli specchi. Le sue vestaglie e le pantofole fatte con gli stessi tessuti dei coprilet-ti e delle tende, e
tutto mi apparve orribile, orribile. Non c'era nulla di personale. E il peggior elemento di quella stanza era
proprio lei, mia madre.
«Mamma, sei felice?», sussurrai. «Hai quello che vuoi?».
A Saint Esprit se ne stava ubriaca dalla mattina alla sera sulla terrazza con i libri, la birra e la televisione.
Quattro anni aveva trascorso in questo stato o ancora di più. Era stato davvero così brutto?
Non mi aveva sentita. Era profondamente addormenta-ta e la sua mano era gelida.
Andai nella mia stanza e chiusi la porta sull'ingresso. Mi stesi sul letto e guardai fuori verso le porte che
davano sul patio e l'intera casa sembrava quieta e immobile. Non credo che per me quella casa sia mai
stata così vuota. Il personale si era dileguato nei villini, sul retro. Non era rimasto nessun giardiniere a
girovagare fuori. Tutta Beverly Hills sembrava vuota. Non avresti mai creduto che dietro a quegli aranci,
a quelle mura ci fosse lo schifo di Los Angeles.
Piangevo. Pensieri folli mi correvano per la testa. Dove-vo fare qualcosa! Dovevo lasciare Marty, senza
dubbio. Dovevo andare da Susan o da G.G., non importa quanto mi sarebbe stato difficile. Ma il dolore
che provavo dentro di me era il più straziante che mai avessi provato. Sapevo d'essere solo una ragazzina
e che una ragazzina queste cose le supera, e non è neanche previsto che possa innamorarsi: l'amore è
illegale, per una ragazzina. Fino ai ventun anni non è previsto che nulla sia reale. Ma Cristo, è terribile.
Così terribile che non riuscivo a muovermi o a pensare o persino a desiderare di ubriacarmi.
E, naturalmente, sapevo che Marty stava per tornare. Sapevo che avrei udito la macchina nel passo
carraio. Sapevo che avrei udito, da qualche parte, l'aprirsi di una porta. Continuavo a guardare fuori,
oltre il patio, attraverso gli aranci, e vidi sopraggiungere il crepuscolo della California, e l'unico rumore
era il mio pianto. Solo il pianto.
Si faceva sempre più buio e allorarealizzai che di fronte alle porte del patio c'era qualcuno in piedi. Era
Marty che le stava aprendo.
Mi sentii vinta. Sapevo che era sbagliato sedermi e abbracciarlo, baciarlo, ma non me ne importava. Per
il momento, non me ne importava.
E sapevo anche che se ora avessi fatto l'amore con lui, su quel letto, a neppure dieci passi da mamma,
poi l'avrei fatto sempre. Non sarei andata da G.G. Avrei fatto quello che Marty voleva: noi tre sotto lo
stesso tetto.
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Tuttavia lo baciai e mi lasciai baciare. Lasciai che lui cominciasse a togliermi i vestiti di dosso.
«Oh, amore, non mi lasciare, per favore, non mi lascia-re», diceva, «non lasciare neppure lei, non
lasciare nessuno di noi. Non mentisce quando dice di volerti qui a casa».
«Non parlare», dissi.
«Tesoro, tu e io siamo le uniche cose che le sono rimaste. Lo capisci?».
«Non parlare più di lei, Marty, per favore», dissi io.
E allora non parlammo più, stemmo semplicemente insieme, e io pensavo, no, non ce la farò a rinunciare
a lui.
Poi udii il rumore più forte che avessi mai udito in vita mia. Voglio dire che fu davvero assordante. E per
un secondo non ebbi la minima idea di cosa fosse. Be', era una pistola calibro 38, che aveva sparato in
una stanza di circa cinque metri per sei. Marty mi spinse fuori dal letto, sul pavimento, urlando:
«Bonnie, tesoro, no!».
Ma la pistola sparò, mi sembrò, una ventina di volte. Ogni cosa andava in frantumi. Le bottiglie di vetro
sul comò dietro di me, lo specchio, l'orologio elettrico vicino al letto.
Ma furono solo cinque i colpi, Marty l'aveva afferrata e le aveva tolto la pistola. Lei strillava, lui era
sanguinante. Lei si divincolò e ruppe il vetro della porta del patio.
«Esci fuori, Belinda», urlava lui. «Esci fuori!».
Lei strillava: «Dammela, fammela finire, c'è rimasta un'ultima pallottola, dannazione, lasciamela scaricare
su me stessa».
Non riuscivo a muovermi. Poi si precipitò dentro l'infermiera, e anche il cuoco era lì, e altre persone che
non conoscevo. E Marty disse:
«Portate Belinda fuori di qui, subito! Portatela via. Via!».
Be', ero appena arrivata alla piscina quando sentii che chiamavano l'autoambulanza. Riuscii a vedere che
Marty stava bene e che mamma sedeva sul bordo del letto. Poi l'infermiera venne correndo verso di me.
«Marty ti manda a dire di andare allo Château e rimanere lì finché lui non ti chiamerà».
Aveva le chiavi della Ferrari di Marty, mi portò lì e mi disse di accovacciarmi sul sedile e di star giù
finché non avessimo lasciato Beverly Hills.
Quella notte fu un inferno.
L'infermiera mi chiamò per dirmi che Marty stava bene ed era in cura intensiva, che probabilmente [ Pobierz caÅ‚ość w formacie PDF ]
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